Satira I
A Messer Bonaventura Pistofilo Ducale Secretario Pistofilo, tu scrivi che, se appresso
papa Clemente imbasciator del Duca
per uno anno o per dui voglio esser messo,
ch’io te ne avisi, acciò che tu conduca
la pratica; e proporre anco non resti
qualche viva cagion che me vi induca:
che lungamente sia stato de questi
Medici amico, e conversar con loro
con gran dimestichezza mi vedesti,
quando eran fuorusciti, e quando fòro
rimessi in stato, e quando in su le rosse
scarpe Leone ebbe la croce d’oro;
che, oltre che a proposito assai fosse
del Duca, estimi che tirare a mio
utile e onor potrei gran pòste e grosse;
che più da un fiume grande che da un rio
posso sperar di prendere, s’io pesco.
Or odi quanto acciò ti rispondo io.
Io te rengrazio prima, che più fresco
sia sempre il tuo desir in essaltarmi,
e far di bue mi vogli un barbaresco;
poi dico che pel fuoco e che per l’armi
a servigio del Duca in Francia e in Spagna
e in India, non che a Roma, puoi mandarmi:
ma per dirmi ch’onor vi si guadagna
e facultà, ritruova altro cimbello,
se vuoi che l’augel caschi ne la ragna.
Perché, quanto all’onor, n’ho tutto quello
ch’io voglio: assai mi può parer ch’io veggio
a più di sei levarmisi il capello,
perché san che talor col Duca seggio
a mensa, e ne riporto qualche grazia
se per me o per li amici gli la chieggio.
E se, come d’onor mi truovo sazia
la mente, avessi facultà a bastanza,
il mio desir si fermeria, ch’or spazia.
Sol tanta ne vorrei, che viver sanza
chiederne altrui mi fésse in libertade,
il che ottener mai più non ho speranza,
poi che tanti mie’ amici podestade
hanno avuto di farlo, e pur rimaso
son sempre in servitude e in povertade.
Non vuo’ più che colei che fu del vaso
de l’incauto Epimeteo a fuggir lenta
mi tiri come un bufalo pel naso.
Quella ruota dipinta mi sgomenta
ch’ogni mastro di carte a un modo finge:
tanta concordia non credo io che menta.
Quel che le siede in cima si dipinge
uno asinello: ognun lo enigma intende,
senza che chiami a interpretarlo Sfinge.
Vi si vede anco che ciascun che ascende
comincia a inasinir le prime membre,
e resta umano quel che a dietro pende.
Fin che de la speranza mi rimembre,
che coi fior venne e con le prime foglie,
e poi fuggì senza aspettar settembre
(venne il dì che la Chiesa fu per moglie
data a Leone, e che alle nozze vidi
a tanti amici miei rosse le spoglie;
venne a calende, e fuggì inanzi agli idi),
fin che me ne rimembre, esser non puote
che di promessa altrui mai più mi fidi.
La sciocca speme alle contrade ignote
salì del ciel, quel dì che ‘l Pastor santo
la man mi strinse, e mi baciò le gote;
ma, fatte in pochi giorni poi di quanto
potea ottener le esperienze prime,
quanto andò in alto, in giù tornò altrotanto.
Fu già una zucca che montò sublime
in pochi giorni tanto, che coperse
a un pero suo vicin l’ultime cime.
Il pero una matina gli occhi aperse,
ch’avea dormito un lungo sonno, e visti
li nuovi frutti sul capo sederse,
le disse: — Che sei tu? come salisti
qua su? dove eri dianzi, quando lasso
al sonno abandonai questi occhi tristi? —
Ella gli disse il nome, e dove al basso
fu piantata mostrolli, e che in tre mesi
quivi era giunta accelerando il passo.
— Et io — l’arbor soggiunse — a pena ascesi
a questa altezza, poi che al caldo e al gielo
con tutti i vènti trenta anni contesi.
Ma tu che a un volger d’occhi arrivi in cielo,
rendite certa che, non meno in fretta
che sia cresciuto, mancherà il tuo stelo. —
Così alla mia speranza, che a staffetta
mi trasse a Roma, potea dir chi avuto
pei Medici sul capo avea la cetta
o ne l’essilio avea lor sovenuto,
o chi a riporlo in casa o chi a crearlo
leon d’umil agnel gli diede aiuto.
Chi avesse avuto lo spirito di Carlo
Sosena allora, avria a Lorenzo forse
detto, quando sentì duca chiamarlo;
et avria detto al duca di Namorse,
al cardinal de’ Rossi et al Bibiena
(a cui meglio era esser rimaso a Torse),
e detto a Contessina e a Madalena,
ala nora, alla socera, et a tutta
quella famiglia d’allegrezza piena:
— Questa similitudine fia indutta
più propria a voi, che come vostra gioia
tosto montò, tosto sarà distrutta:
tutti morrete, et è fatal che muoia
Leone appresso, prima che otto volte
torni in quel segno il fondator di Troia. —
Ma per non far, se non bisognan, molte
parole, dico che fur sempre poi
l’avare spemi mie tutte sepolte.
Se Leon non mi diè, che alcun de’ suoi
mi dia, non spero; cerca pur questo amo
coprir d’altr’ésca, se pigliar me vuoi.
Se pur ti par ch’io vi debbia ire, andiamo;
ma non già per onor né per ricchezza:
questa non spero, e quel di più non bramo.
Più tosto di’ ch’io lascierò l’asprezza
di questi sassi, e questa gente inculta,
simile al luogo ove ella è nata e avezza;
e non avrò qual da punir con multa,
qual con minaccie, e da dolermi ogni ora
che qui la forza alla ragione insulta.
Dimmi ch’io potrò aver ozio talora
di riveder le Muse, e con lor sotto
le sacre frondi ir poetando ancora.
Dimmi che al Bembo, al Sadoletto, al dotto
Iovio, al Cavallo, al Blosio, al Molza, al Vida
potrò ogni giorno, e al Tibaldeo, far motto;
tòr di essi or uno e quando uno altro guida
pei sette Colli, che, col libro in mano,
Roma in ogni sua parte mi divida.
— Qui — dica — il Circo, qui il Foro romano,
qui fu Suburra, e questo è il sacro clivo;
qui Vesta il tempio e qui il solea aver Iano. —
Dimmi ch’avrò, di ciò ch’io leggo o scrivo,
sempre consiglio, o da latin quel tòrre
voglia o da tósco, o da barbato argivo.
Di libri antiqui anco mi puoi proporre
il numer grande, che per publico uso
Sisto da tutto il mondo fe’ raccorre.
Proponendo tu questo, s’io ricuso
l’andata, ben dirai che triste umore
abbia il discorso razional confuso.
Et io in risposta, come Emilio, fuore
porgerò il piè, e dirò: — Tu non sa’ dove
questo calciar mi prema e dia dolore. —
Da me stesso mi tol chi mi rimove
da la mia terra, e fuor non ne potrei
viver contento, ancor che in grembo a Iove.
E s’io non fossi d’ogni cinque o sei
mesi stato uno a passeggiar fra il Domo
e le due statue de’ Marchesi miei;
da sì noiosa lontananza domo
già sarei morto, o più di quelli macro
che stan bramando in purgatorio il pomo.
Se pur ho da star fuor, mi fia nel sacro
campo di Marte senza dubbio meno
che in questa fossa abitar duro et acro.
Ma se ‘l signor vuol farmi grazia a pieno,
a sé mi chiami, e mai più non mi mandi
più là d’Argenta, o più qua del Bondeno.
Se perché amo sì il nido mi dimandi,
io non te lo dirò più volentieri
ch’io soglia al frate i falli miei nefandi;
che so ben che diresti: — Ecco pensieri
d’uom che quarantanove anni alle spalle
grossi e maturi si lasciò l’altro ieri! —
Buon per me ch’io me ascondo in questa valle,
né l’occhio tuo può correr cento miglia
a scorger se le guancie ho rosse o gialle;
che vedermi la faccia più vermiglia,
ben che io scriva da lunge, ti parrebbe,
che non ha madonna Ambra né la figlia,
o che ‘l padre canonico non ebbe
quando il fiasco del vin gli cadde in piazza,
che rubò al frate, oltre li dui che bebbe.
S’io ti fossi vicin, forse la mazza
per bastonarmi piglieresti, tosto
che m’udissi allegar che ragion pazza
non mi lasci da voi viver discosto.
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